Quale business model per la musica online?
Nel mondo di Internet, cè sempre stata una scarsa sostenibilità dei modelli di business basati sul pagamento diretto da parte degli utenti, soprattutto per quanto riguarda il mondo delleditoria e delle news. Nel settore musicale inoltre si è sviluppato fin dal principio un mercato parallelo illegale, che permetteva agli utenti di scaricare canzoni con facilità senza dover ricorrere ai canali legali a pagamento.
di Andrea Lamperti, Direttore Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano
Nel mondo di Internet, c’è sempre stata una scarsa sostenibilità dei modelli di business basati sul pagamento diretto da parte degli utenti, soprattutto per quanto riguarda il mondo dell’editoria e delle news. Nel settore musicale inoltre si è sviluppato fin dal principio un mercato parallelo illegale, che permetteva agli utenti di scaricare canzoni con facilità senza dover ricorrere ai canali legali a pagamento. I dati del mercato globale della musica offrono una duplice lettura: se da una parte, il calo dei ricavi negli ultimi dieci anni è stato gravissimo (perso il 25% del valore complessivo tra il 2005 e il 2015), dall’altra parte, per la prima volta, a fine 2015 il canale online ha superato in valore assoluto il mercato fisico e, ancora più importante, ha più che compensato le perdite sul canale tradizionale (fonte IFPI). Questo trend è confermato anche a livello nazionale nei primi 6 mesi del 2016: FIMI ha evidenziato il sorpasso dei canali digitali su quelli fisici (51% vs 49%, l’anno scorso era 43% vs 57%) e una crescita complessiva del mercato dell’1% rispetto al 2014. Timidi segnali di ripresa, ma siamo ancora molto lontani dai valori assoluti del mercato nel 2005.
Se poi analizziamo le dinamiche dei diversi player che offrono servizi in questo mercato, emerge la difficile sostenibilità dei nuovi business emergenti. I servizi in streaming in abbonamento con le offerte “all-you-can-eat” presentano infatti due modelli di revenue: a pagamento con accesso illimitato oppure gratuito con alcune restrizioni e la presenza di pubblicità. Ad oggi, pur crescendo il numero di abbonati ai servizi a pagamento, la quota di utenti paganti rimane assolutamente marginale rispetto a quella che fruisce dei contenuti in modalità limitata ma gratuita. Gli abbonamenti premium, ossia i servizi che ad un costo fisso mensile permettono di accedere a tutta la library di contenuti, non sono così attrattivi da giustificarne la spesa. D’altra parte, però, nella componente gratuita, i ricavi pubblicitari sono ancora limitati: lo studio IFPI mostra come venga raccolto meno di un dollaro all’anno per utente rispetto ai 18 dollari di ricavo medio per ogni cliente premium. Entrambi i modelli quindi, presentano forti difficoltà.
Il prossimo futuro ci riserverà poi nuovi scenari, potenzialmente interessanti ma dal dubbio esito. Da una parte, la competizione aumenterà ancora: sono infatti in fase di lancio alcuni nuovi servizi, addirittura con prezzi al pubblico ancora più bassi di quelli presenti attualmente sul mercato, e non è ancora chiaro come potranno essere profittevoli, visto che la stessa Spotify, leader di mercato, non ha mai chiuso un bilancio in attivo fino ad oggi. Dall’altra parte, invece, alcuni attori ragionano sulla possibilità di diversificare l’offerta in abbonamento, offrendo in alternativa all’accesso completo a tutta la library, solo piccole porzioni della playlist: questo significa ipotizzare di vendere una porzione dei propri contenuti a prezzo più basso, ma ad un numero complessivamente maggiore di clienti, in modo che il gioco valga la candela. L’idea è simile a quella del mondo delle pay Tv: organizzare i contenuti in pacchetti e valorizzarli singolarmente. Nel mondo della televisione funziona; nell’industry della musica potrebbe suonare bene.
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