Smart Working: il futuro del lavoro al bivio

A cura di:
Fiorella Crespi, Direttrice Osservatorio Smart Working
Dora Caronia, Ricercatrice Osservatorio Smart Working
Giacomo Spiccia, Analista Osservatorio Smart Working

Il 20 ottobre sono stati presentati i risultati dell’undicesima edizione dell’Osservatorio Smart Working. La Ricerca di quest’anno – attraverso il coinvolgimento di organizzazioni multi-settore di diverse dimensioni e di un panel di 1.000 lavoratori – ha indagato la diffusione del fenomeno in Italia e gli impatti su persone, organizzazioni e ambiente.
Sono circa 3 milioni e mezzo i lavoratori da remoto in Italia, quasi 500 mila in meno rispetto allo scorso anno. Circa la metà di questi lavora per grandi imprese, dove si registra un consolidamento delle iniziative rispetto all’anno precedente: il 91% dichiara infatti di avere progetti di lavoro da remoto. La riduzione del numero di lavoratori da remoto rispetto al 2021 è per lo più imputabile alle scelte delle piccole e medie imprese e delle pubbliche amministrazioni, nelle quali il lavoro da remoto è stato adottato, rispettivamente, dal 48% e dal 57% delle organizzazioni. Le motivazioni che spingono queste organizzazioni a rivedere il proprio modello organizzativo in ottica smart sono per lo più legate al miglioramento del benessere organizzativo e del work-life balance delle persone, a cui si aggiunge la necessità delle aziende di potenziare la propria capacità di attrarre e trattenere talenti, esigenza avvertita specialmente dalle grandi imprese. Questo quadro lascia intendere come molte organizzazioni non abbiano ancora colto in toto i potenziali benefici dello Smart Working, che non rappresenta solo uno strumento per gestire le situazioni di emergenza o incrementare il benessere delle persone, ma è soprattutto una potente leva di ripensamento organizzativo per migliorare le performance aziendali. A conferma di ciò, è stato stimato che solo una parte delle organizzazioni che dichiarano di applicare lo Smart Working adotta effettivamente modelli completi, ovvero che prevedono contemporaneamente flessibilità di luogo e di tempo, contemplino una rivisitazione degli spazi di lavoro e abbiano un approccio basato su risultati e obiettivi. Nello specifico, ad adottare il “vero” Smart Working sono il 65% delle grandi imprese, il 29% delle PMI e il 21% delle PA. L’adozione di modelli che agiscono su tutte le leve dello Smart Working permette ad un maggior numero di organizzazione di ottenere dei miglioramenti nelle performance aziendali sia nel settore privato che nel settore pubblico, specialmente in termini di capacità di innovazione, efficacia ed efficienza nel lavoro.
Analizzando gli impatti sulle persone, i dati mostrano che differenti modalità di lavoro hanno un diverso impatto in termini di benessere personale ed engagement delle persone. Sono stati infatti messi a confronto tre profili di lavoratori: gli on-site worker, cioè coloro che lavorano sempre presso la sede; i lavoratori remote non smart, che lavorano da remoto ma non hanno altre flessibilità od orientamento al risultato; e gli smart worker, che al lavoro da remoto associano anche altre forme di flessibilità e il lavoro per obiettivi. L’analisi sul benessere mostra come la categoria degli smart worker sia la più propensa a dichiarare elevati livelli di benessere, superando sia il gruppo degli on-site workers che quello dei remote non smart. Gli smart worker sono anche la categoria di lavoratori più ingaggiata, mentre i lavoratori remote non smart risultano essere i più disingaggiati. Ciò evidenzia chiaramente come il solo lavoro da remoto, se mancante di altre caratteristiche smart e non inserito in una cornice più ampia di flessibilità e revisione dei processi, non porta benefici né a livello personale né organizzativo, ma può invece condurre a esiti più negativi persino rispetto a chi non ha alcuna forma di flessibilità, come i lavoratori on-site.

Lo Smart Working può giocare un ruolo fondamentale anche a livello di sostenibilità ambientale ed economica. Lavorare due giorni a settimana da casa consentirebbe una riduzione degli spostamenti casa-lavoro, che si traduce in un risparmio annuale medio pari a circa 1000 euro per lavoratore. Questo guadagno sarebbe parzialmente bilanciato dai costi associati ai maggiori consumi energetici sostenuti lavorando da casa, che ammontano mediamente a circa 400 euro all’anno. Ne risulta un risparmio annuo netto di circa 600 euro a favore del lavoratore. Assumendo invece la prospettiva delle organizzazioni, due giorni di lavoro da remoto a settimana consentirebbero un risparmio sui consumi energetici pari a circa 500 euro per postazione. Se a questo si combinasse la decisione di ridurre gli spazi della sede del 30%, tale risparmio potrebbe aumentare fino a circa 2.500 €/anno per lavoratore. L’impatto ambientale di tutto ciò è notevole: lavorare da casa due giorni a settimana permetterebbe di ridurre le emissioni di circa 450 kg di CO2 annui per persona. Una cifra non indifferente, che proiettata sul numero di lavoratori da remoto stimati a livello nazionale implicherebbe un risparmio di 1,5 milioni di tonnellate di CO2, la stessa quantità di anidride carbonica assorbita da una superficie boschiva grande 8 volte il Comune di Milano.

Dal quadro presentato emerge che per molte organizzazioni italiane si prospetta un bivio. L’adozione di uno Smart Working di sola “facciata” – che consenta di lavorare da remoto ma senza un adeguamento delle modalità di svolgimento e gestione delle attività – rappresenta la via certamente più comoda nell’immediato, ma al contempo meno conveniente per aziende e lavoratori. D’altro canto, improntare un modello che agisca su tutte le leve dello Smart Working rappresenta una strada più faticosa nel breve periodo, ma anche la strategia migliore per godere di tutti i benefici associati al lavoro agile.

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